Gaia Dominici, una madre che vive nella savana: «In Italia sembra che i bambini siano considerati fastidiosi e ingombranti, mentre in Kenya sono visti come figli di tutta la comunità»

Gaia Dominici, una madre che vive nella savana: «In Italia sembra che i bambini siano considerati

Nel racconto di Gaia si mescolano le radici sudamericane della sua infanzia con i tratti distintivi della cultura genovese e siciliana che l’hanno plasmata. Si potrebbe dire che ogni individuo è il risultato di un incrocio di storie e di influenze, una sorta di mosaico umano. Gaia stessa porta con sé le tracce visibili di questo intreccio di provenienze, e la sua storia personale è un esempio di come le identità possano essere sfaccettate e complesse.

Questa giovane donna ha attraversato confini geografici e culturali per scoprire la propria identità, come se cercasse di ricomporre un puzzle rovesciato. In questo viaggio interiore, ha trovato nell’amore per la cultura Maasai e nell’essere madre di Nare un nuovo punto di ancoraggio, un approdo in cui trovare stabilità. La maternità, con le sue gioie e le sue sfide, ha portato Gaia a fare i conti con la sua identità e a guardare al mondo con occhi diversi. Ed è proprio attraverso lo sguardo di Nare che Gaia riesce a riscoprire se stessa: nella sua piccola ricciolina tutto pepe, trova la forza di restare e di lasciare radici profonde nel terreno africano.

E così Gaia, la ragazza proveniente da Bogotà e cresciuta a Genova, trova nella savana kenyota un nuovo capitolo della sua storia, un’ancora di calma in un mare agitato. La sua vita continua a tessere intrecci inaspettati, dimostrando che l’amore e l’identità sono fluidi e mutevoli, sempre pronti a reinventarsi.

Gaia, in che modo hai vissuto la tua esperienza di essere figlia?

Le emozioni, la consapevolezza di sé, la ricerca di un'identità che mi appartenesse appieno, tutto ciò

Sono stata una figlia difficile e lo sono tuttora, un’etichetta che mi porto dietro come una cicatrice invisibile, ma profonda. L’adozione ha plasmato la mia esistenza in modi che solo chi l’ha vissuta può comprendere appieno. Non c’è nulla di più intenso dell’amore tra genitori e figli, eppure L’adozione è diversa, ne modifica le sfumature e le prospettive.

Mia figlia, ad esempio, inizia a esplorare il concetto della maternità, a capire che il suo corpo è stato ospitato nel mio grembo. Io, al contrario, non ho avuto la possibilità di provare quella meraviglia, la cicatrice del cesareo mi rammenta ogni giorno il vuoto che ho dovuto affrontare. È una ferita che va oltre la pelle, che si insinua nel profondo, un’assenza difficile da colmare.

L’adozione ha intaccato ogni aspetto della mia vita, ha generato un malessere che non riuscivo a comprendere completamente, soprattutto durante l’adolescenza. Le emozioni, la consapevolezza di sé, la ricerca di un’identità che mi appartenesse appieno, tutto ciò era avvolto da un velo di incertezza e confusione.

La psicoterapia è stata la mia ancora in quei momenti tumultuosi, un percorso che mi ha condotto alla comprensione di molte cose. Ma L’adozione continua a incidere, è un marchio che porta con sé una serie di interrogativi irrisolti, di emozioni nascoste. Guardando indietro, posso dire di essere diventata più forte, più consapevole di me stessa. Ma le cicatrici dell’adozione non svaniscono, si trasformano in parte di ciò che siamo, in un tessuto narrativo che definisce la nostra esistenza.

Quindi, partendo da casa, sei scappata anche dai tuoi genitori?

Anche se non conosco le origini del mio DNA, so di essere fatta di amore, di

Quando sono partita, ho osservato il mondo con occhi nuovi, cercando di capire chi fossi veramente e quale strada volessi percorrere. Ho camminato lungo strade sconosciute, provando emozioni e sensazioni mai sperimentate prima. Ho conosciuto persone diverse da me, con storie e culture diverse, che mi hanno arricchito e mi hanno fatto capire che il mondo è un luogo pieno di sfaccettature, ognuna pronta a svelare un pezzo di verità sulla vita.

Ho anche vissuto momenti di smarrimento e incertezza, in cui mi sono sentita persa e confusa su quale direzione prendere. Ma ogni volta che mi sentivo in difficoltà, i valori e i principi trasmessi dai miei genitori mi hanno dato la forza di superare ogni ostacolo e di non perdere mai la speranza.

Ho capito che la vita è un viaggio fatto di incontri, di scelte e di esperienze, e che è importante avere accanto persone che ti sostengano e ti comprendano, anche quando non condividono tutte le tue scelte. Ogni passo che ho compiuto mi ha reso più consapevole di me stessa e delle mie aspirazioni, e mi ha insegnato che la libertà di cercare la propria strada non significa allontanarsi dalle proprie radici, ma arricchirsi e tornare a esse con uno sguardo diverso, più maturo e consapevole.

Ti è stata comunicata fin da subito l’informazione che sei stata adottata?

  Nel mio percorso di creatrice di contenuti, mi sono spesso ritrovata a navigare tra

La mia infanzia è stata come un gioco di specchi, in cui la mia immagine riflessa non corrispondeva esattamente a quella della famiglia che mi circondava. Eppure, non ho mai avuto la sensazione di essere diversa o di non appartenere. La mia famiglia mi ha insegnato che l’amore e l’affetto vanno al di là del legame del sangue, che l’importante è la condivisione di sentimenti profondi e sinceri.

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I segreti di famiglia sono come nodi stretti in un tessuto, possono essere scoperti e sciolti, ma nessuno sa cosa si nasconde dietro di essi fino a quando non si è pronti per affrontare la realtà. La verità può essere dolorosa, ma a volte è anche liberatoria. Ho imparato che non c’è una verità assoluta, ma piuttosto una serie di verità soggettive che dipendono dal punto di vista di chi le vive.

La vita è fatta di sottili fili intrecciati, e ogni filo rappresenta una parte di noi, delle nostre storie e dei nostri legami affettivi. Anche se non conosco le origini del mio DNA, so di essere fatta di amore, di comprensione e di accettazione. Sono grata a mio padre e a mia madre per avermi dato l’opportunità di crescere in un ambiente sereno e pieno di affetto, indipendentemente dalle circostanze che ci hanno portato ad essere una famiglia.

Nella vita, ciò che conta davvero non è da dove veniamo, ma dove stiamo andando e con chi scegliamo di condividere il viaggio. E io ho scelto di essere parte di questa meravigliosa famiglia che mi ha accolta e amata come se fossi il frutto del loro sangue.

Hai mai avvertito di essere stata oggetto di discriminazione da parte degli altri?

Nel corso della mia vita, ho sperimentato più di una volta il peso del razzismo e della discriminazione. Sono nata nel 1992, in un’epoca in cui l’Italia era meno multietnica e aperta alla diversità. La scarsa conoscenza e l’ignoranza erano diffuse, alimentando pregiudizi e comportamenti discriminatori.

Uno degli episodi più dolorosi risale ai miei primi anni di scuola elementare, quando un mio compagno, con il quale ero amica, mi rivolse la parola con un termine offensivo legato alla mia origine etnica, intimandomi di tornare a casa. Quell’esperienza ha lasciato in me una ferita profonda, in quanto ero solo una bambina e non avevo gli strumenti per difendermi.

L’essere vittima di razzismo a quell’età ha generato in me un trauma che ancora oggi porto con me. La situazione si è trasformata in un vero e proprio caos, coinvolgendo insegnanti e genitori, ma la ferita emotiva creata in quei momenti non si è rimarginata facilmente. Quando sei piccolo, hai pochi strumenti per affrontare e superare l’ingiustizia e la violenza.

Il razzismo e la discriminazione possono lasciare cicatrici profonde nell’animo di una persona, soprattutto se vissuti in giovane età. Tuttavia, è importante trovare la forza per affrontare questi traumi e trasformare queste esperienze negative in un punto di partenza per costruire un mondo più equo e inclusivo.

Qual è stata l’origine della decisione di intraprendere il viaggio verso il Kenya e immergersi in una diversa realtà culturale?

Mi sono ritrovata ad abbracciare una cultura diversa dalla mia, una cultura in cui il tempo sembra scorrere in maniera diversa, dove tutto sembra seguire ritmi più naturali e in sintonia con l’ambiente circostante. È proprio questa connessione con la natura che mi ha affascinato e mi ha fatto sentire parte di qualcosa di più grande, di un ciclo di vita che va oltre l’individuo.

In questa terra ho imparato a conoscere e rispettare le tradizioni locali, ad apprezzare la semplicità e la forza di una comunità unita. Ho imparato che la vera ricchezza non sta nei beni materiali, ma nelle relazioni umane e nel rapporto con la natura. Questa consapevolezza mi ha portato a riconsiderare le priorità della mia vita, ad apprezzare di più i piccoli momenti e a cercare di vivere in armonia con ciò che mi circonda.

L’esperienza tra i Maasai mi ha insegnato che la vita può essere vissuta in modi diversi, che esistono altre prospettive e altre verità al di là di quelle a cui siamo abituati. Mi ha spinto a mettermi in discussione, a rimettere in gioco le mie certezze e a cercare un equilibrio tra la frenesia della vita moderna e la serenità di una vita più semplice e autentica.

Sono grata per aver avuto l’opportunità di scoprire questo mondo nuovo, che ha arricchito la mia esistenza e mi ha aperto la mente a nuove possibilità. Camminando lungo la savana, ho capito che la vita è un viaggio in continua evoluzione, fatto di incontri e scoperte inaspettate, un viaggio che va vissuto con cuore aperto e mente curiosa.

Qual è stata l’esperienza della maternità nella cultura Maasai?

Inoltre, ho potuto osservare come la natura fosse al centro della vita quotidiana dei Maasai e, in un certo senso, anche della cultura kenyana. La terra e gli animali rappresentano una parte integrante della vita e vengono venerati con profondo rispetto. Questo mi ha fatto riflettere sul rapporto che noi occidentali abbiamo con la natura, spesso distante e sfruttante, mentre qui è vissuto in modo armonioso e sostenibile.

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A volte mi chiedo se non avremmo da imparare da queste culture, che hanno un legame così forte con la terra e un rispetto così profondo per la vita in tutte le sue forme. La vita qui scorre in un ritmo diverso, meno frenetico e più legato alla natura e alla comunità. Forse è proprio questo legame con la comunità che ci manca nelle nostre società individualiste e spesso isolate.

Ma, allo stesso tempo, non posso fare a meno di notare le sfide e le difficoltà che la vita in queste comunità porta con sé. La mancanza di risorse, l’accesso limitato all’istruzione e alle cure mediche, sono solo alcune delle difficoltà che le persone devono affrontare ogni giorno. È un equilibrio delicato tra la bellezza di una vita in armonia con la natura e le difficoltà pratiche di sopportare le necessità della vita quotidiana.

In ogni caso, la mia esperienza in Kenya mi ha aperto gli occhi su molte cose e mi ha spinto a riflettere sulla diversità delle culture e sulle sfide che ogni società deve affrontare. Forse, alla fine, non si tratta di giudicare quale sia il modo di vivere migliore, ma di imparare dagli altri e cercare di trovare un equilibrio tra le diverse prospettive sulla vita.

Quali sono gli aspetti che meno ti piacciono nella concezione italiana della genitorialità?

In Italia, la figura del bambino è spesso relegata a uno status di subordinazione, costretto a conformarsi ai modi e alle regole degli adulti. Ma forse dovremmo imparare a vedere il mondo anche attraverso gli occhi dei più piccoli, a rivalutare la spontaneità e l’energia che caratterizzano l’infanzia.

Quando Nare lascia cadere delle patatine e io mi scuso per il disordine che crea, mi viene in mente quanta importanza si dia alla perfezione e alla pulizia anche in situazioni così banali. Forse faremmo meglio a lasciare spazio all’errore, all’imperfezione, sapendo che il processo di apprendimento e crescita prevede inevitabilmente dei passi falsi.

E poi c’è questa tendenza a giudicare e a guardare, a scrutare il comportamento degli altri, soprattutto quando si tratta di genitorialità. Ma chi può davvero dire come dovrebbero essere i bambini, se non loro stessi? Forse è il momento di riscoprire l’innocenza e la genuinità che i bambini portano con sé, senza cercare di plasmarli a immagine e somiglianza nostra.

Nare, con la sua stravaganza e la sua vitalità, mi ricorda ogni giorno quanto sia importante preservare la meraviglia e la curiosità che sono propri dei primi anni di vita. E forse dovremmo imparare tutti a essere un po’ più “stravaganti” e attivi, a non temere di rompere le rigide convenzioni che talvolta ci costringono a essere meno autentici.

Qual è il ruolo che ricopri come mamma nella vita di Nare?

Mi considero una mamma che cerca di trasmettere alla propria figlia valori importanti come l’indipendenza, la libertà di espressione e il coraggio di sfidare le convenzioni sociali. Cerco di essere un esempio per lei, affinché possa crescere consapevole di sé e del mondo che la circonda.

La maternità è un viaggio fatto di alti e bassi, di momenti di gioia e di difficoltà. Cerco di essere presente per mia figlia, di accompagnarla nel suo percorso di crescita e di sostenerla nelle sue scelte. Allo stesso tempo, mi rendo conto di non essere perfetta e di commettere errori, come ad esempio perdere la pazienza troppo facilmente. Tuttavia, spero di essere per lei un punto di riferimento, come lo sono stati i miei genitori per me.

Nella vita, è importante avere delle figure di riferimento, delle “boe” a cui potersi aggrappare nei momenti di difficoltà. Cerco di essere quella “boa” per mia figlia, affinché possa sentirsi sicura e sostenuta nel percorso verso la sua realizzazione personale. La maternità è un impegno costante, ma spero di poter essere per mia figlia una presenza positiva e significativa, capace di ispirarla a essere la migliore versione di sé stessa.

L’importanza di non nascondere mai le proprie debolezze e di condividere i momenti negativi, la fragilità e il bisogno di aiuto per contribuire a sfatare il mito dei genitori perfetti.

Nel mio percorso di creatrice di contenuti, mi sono spesso ritrovata a navigare tra le storie e le narrazioni degli altri, lasciando che esse plasmasse la mia visione del mondo e di me stessa. È facile sentirsi inadeguati di fronte alle vite apparentemente perfette che vengono raccontate, ma è nel riconoscere e smettere di dare ascolto a queste narrazioni dannose che possiamo ritrovare la nostra autenticità e il nostro valore.

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In un’epoca in cui le vite vengono costantemente esposte sui social media e l’immagine diventa spesso più importante della realtà, è fondamentale fare spazio alla verità e alla vulnerabilità. Il dolore e le difficoltà fanno parte della vita di ognuno di noi, e condividerli può essere un atto di coraggio che permette di rompere l’isolamento e la solitudine che spesso il dolore porta con sé.

La vita non è una gara per mostrare solo il lato migliore di sé stessi, ma un viaggio fatto di alti e bassi, di gioie e dolori. Accettare la propria verità, anche quando essa porta con sé sofferenza, è un passo verso una vita autentica e piena.

Hai parlato di un episodio di razzismo che è avvenuto in Italia. Secondo te, pensi che il nostro Paese sia caratterizzato da atteggiamenti razzisti?

Era una calda giornata estiva quando mia mamma, Nare ed io ci trovavamo nella piscina di un tranquillo centro ricreativo in Italia. Mentre ci godavamo il sole e l’acqua fresca, un gruppo di signore si avvicinò a noi con un’aria curiosa e parlottante. Mi ricordai ancora della loro espressione di stupore quando scoprirono che Nare non era la nipote adottiva di mia madre, come avevano pensato in un primo momento, ma la sua figlia legittima. E che io, apparentemente più giovane, non ero la tata di Nare, ma la sua sorella maggiore.

Il contrasto culturale tra il Kenya, dove risiediamo, e l’Italia era sempre molto evidente, ma soprattutto in momenti come quello. Nel mio Paese d’origine, viviamo in un contesto estremamente multietnico, dove il governo riconosce e celebra le festività sia musulmane che cristiane. Lì c’è un senso di inclusione e accettazione delle diversità, mentre in Italia ho spesso avvertito una sorta di curiosità morbosa verso di noi, come se fosse necessario capire da dove veniamo anziché semplicemente accettare ciò che siamo.

In effetti, la reazione delle signore nella piscina era solo un piccolo esempio di un fenomeno più ampio. La curiosità e le domande incessanti riguardanti la nostra famiglia e la nostra storia sembravano derivare da una mentalità ancorata al passato, da una società ancorata a concetti arcaici di appartenenza e provenienza. In un’Italia del 2024, una famiglia multietnica come la nostra non dovrebbe essere considerata fuori dalla normalità, eppure è evidente che c’è ancora un lungo cammino da percorrere.

Mi chiesi allora quanto fosse ingiusto che una baby sitter nera non potesse essere considerata la madre di un bambino bianco, o che una donna bianca non potesse essere la compagna di un uomo nero, senza destare sguardi di stupore o persino disapprovazione. L’accettazione di queste realtà sembrava ancora lontana, e mi chiesi quanto ci volesse ancora per superare questi pregiudizi.

Il razzismo è una ferita profonda che colpisce non solo le prime generazioni di immigrati, ma anche i loro figli e nipoti, nati e cresciuti in Italia. Ho sentito storie di ragazzi di seconde e terze generazioni che hanno vissuto il razzismo sulla propria pelle, nonostante lavorassero, pagassero le tasse e si sentissero profondamente italiani. Anche per noi, adottati, il percorso non è stato privo di sfide. Spesso ho dovuto rispondere a commenti sorpresi del tipo “Ma parli così bene l’italiano!”, come se il mio essere italiana fosse da mettere in dubbio.

In realtà, io sono italiana, così come lo è Nare, e come lo è la mia famiglia. Nonostante le difficoltà e le incomprensioni, il desiderio di essere accettati esattamente per ciò che siamo porta avanti la nostra lotta quotidiana. Spero che un giorno l’Italia possa abbracciare pienamente la sua diversità, senza porsi domande superflue ma accogliendo ogni individuo con amore e rispetto, indipendentemente dalla sua provenienza o dal colore della sua pelle.