Giovanna Zizzo, madre di Laura, una bambina di 11 anni uccisa dal padre: “Voglio condividere la storia di mia figlia nelle scuole affinché la sua morte non sia stata inutile”

Giovanna Zizzo, madre di Laura, una bambina di 11 anni uccisa dal padre: “Voglio condividere la

Giovanna Zizzo, donna forte e determinata, si erge a figura emblematica di una lotta che non si limita alla sfera personale, ma si estende a un’impegno civile e sociale di portata universale. Il sacrificio di sua figlia Laura diventa così il simbolo di una battaglia per la salvaguardia dei valori umani fondamentali, un monito contro la cecità delle relazioni, l’ipocrisia e la violenza che possono annidarsi anche nelle situazioni più familiari e apparentemente sicure.

Il dolore di Giovanna diventa così un messaggio di speranza e resistenza, un inno alla vita e all’amore, un richiamo alla responsabilità di ognuno di noi nel nutrire e preservare i legami umani. La sua testimonianza si fa strumento di trasformazione e guarigione, portando un messaggio universale di tolleranza, rispetto e consapevolezza.

Così, tra le aule scolastiche, il suo racconto diventa voce di una coscienza collettiva che si nutre di memorie dolorose ma ricche di insegnamento, invitando le giovani generazioni a guardare in faccia le ombre del mondo ma a non smarrire mai la speranza. La forza di Giovanna Zizzo risuona come un inno alla resilienza e alla capacità umana di trasformare il dolore in forza generativa e in impegno altruistico.

Attraverso la sua storia, si delinea così un percorso di rinascita e rinforzo interiore, una lotta contro l’oblio e il nichilismo, e una riaffermazione dei valori dell’empatia, della solidarietà e della costruzione di relazioni autentiche e rispettose. Giovanna Zizzo si erge così a icona di una rivoluzione silenziosa ma potente, che parte dal singolo dolore per abbracciare l’intera umanità.

Qual è stata la situazione della tua vita e di quella della tua famiglia prima del 22 agosto 2024?

  Vivere non è solo respirare e muoversi, ma è anche riuscire a trovare un

La vita di famiglia, proprio come il filo di una tela d’aracnide, può sembrare ordinata e regolare, ma basta una piccola scossa per farne emergere le crepe. Così è stato per me, che per anni ho tessuto la trama dei giorni accanto a quello che credevo essere il mio compagno di vita.

Le relazioni umane sono complesse, e spesso ci si trova a dover confrontare con le proprie illusioni. Il tradimento del mio uomo è stato come un terremoto che ha scosso le fondamenta del mio mondo. Ma, come in ogni catastrofe, anche da questa devastazione ho imparato qualcosa.

È incredibile come un evento così doloroso possa portare alla luce verità nascoste, come la mia tendenza a sottomettermi, a lasciarmi guidare anziché essere io stessa il motore della mia vita.

Dopo tutto quello che è successo, ho preso una pausa, una sospensione di giudizio, per capire cosa volessi veramente dalla vita. Ho guardato dentro me stessa e ho trovato una forza insospettata, pronta a rialzarsi e a prendere le redini del mio destino.

L’amore ha molte sfumature, e ho capito che, nonostante tutto, nutrivo ancora affetto per quell’uomo che aveva condiviso tanti anni della mia esistenza. Ma ho anche capito che essere una moglie e una madre non significava perdere se stessi. Doveva finire quel ruolo di sottomissione, perché la vita è troppo preziosa per essere vissuta in ombra.

E così, con la determinazione di chi ha toccato il fondo e ha trovato una nuova consapevolezza, ho deciso di non permettere a nessuno di tenermi a terra. Ho deciso di essere la protagonista della mia vita, senza lasciare che nessuno mi trascini nei meandri dell’apatia e dell’abnegazione.

La tela della mia esistenza, sì, si è crepata, ma ho imparato a intrecciare nuovi fili, ad arricchire la trama con la consapevolezza di chi non teme più le tempeste, ma sa di poterle affrontare con dignità e coraggio.

Qual è successo in seguito?

E quando bussò alla mia porta, decisi di lasciarlo entrare, senza sapere quale dramma si stesse

Quell’estate aveva visto nascere una spaccatura tra me e mio marito, una frattura che cresceva e si allargava come una fenditura in un antico muro di pietra. Avevo chiesto una pausa, non tanto per allontanarmi da lui, ma per trovare la distanza necessaria a ritrovarmi, a capire cosa volessi veramente.

Nonostante la crisi, continuavamo a incontrarci, a cercare di tenere in piedi quel filo sottile che ci legava. Come quella domenica prima del 22 agosto, in cui eravamo stati al mare insieme, una giornata passata tra sabbia e onde, con le nostre bambine che ridevano e giocavano intorno a noi. Avevamo persino dormito nella stessa tenda, come una famiglia che ancora lottava per restare unita. Forse ero ingenua a lasciare aperta quella porta, ma volevo crederci, desideravo trovare una soluzione, dentro di me e tra di noi.

Poi arrivò il 21 agosto, con la sua chiamata improvvisa e la richiesta di potermi vedere. In quel momento non compresi il peso di quelle parole, l’ombra di un presentimento che si faceva strada nella mia mente. E quando bussò alla mia porta, decisi di lasciarlo entrare, senza sapere quale dramma si stesse per abbattere su di me.

Lui si sedette di fronte a me e iniziò a confessare tutto, a raccontarmi ogni dettaglio del suo tradimento. Io tentai di resistere, di negare all’orrore l’ingresso nella nostra conversazione, ma lui continuava a parlare. Poi suonò il campanello, e mia zia fece irruzione nella scena, sconvolgendo i piani e sconvolgendo anche lui con la sua presenza improvvisa. Quell’episodio avrebbe portato mia figlia lontano da me, ma io ancora non lo sapevo. Non sapevo che quella notte sarebbe stata l’ultima volta che avrei abbracciato Laura, che avrei sentito il suo respiro, che avrei visto il suo sorriso.

Le coincidenze della vita, i suoi intrecci imprevedibili, si erano intrecciati in un modo inaspettato, portando con sé la tragedia e la perdita. E io avrei dovuto imparare a convivere con quel dolore, a cercare di trovare una via per continuare a vivere, nonostante tutto.

Hai voglia di condividere con noi i dettagli di quello che è successo tra il 21 e il 22 agosto?

Non possiamo nascondere ai nostri piccoli la complessità del mondo, con le sue ombre e le

Quella sera mia moglie mi chiamò e mi disse che i bambini avevano vissuto una serata diversa dal solito con me. Avevano riso, scherzato, fatto la spesa insieme, mangiato fuori, andato al parco. Be’, ero felice di aver trascorso del tempo di qualità con loro. Ma c’era qualcosa che non riuscivo a capire, un senso di frustrazione dietro a quella gioia apparente.

Mia moglie era troppo abituata a vedermi come un uomo chiuso in se stesso, troppo lontano dal mondo dei bambini, ma forse stava sottovalutando le mie capacità di empatia. Certo, non sono il tipo di padre estroverso e giocherellone, ma non è che io non voglia stare con loro. Forse è solo che trovo difficile esprimere le emozioni in modo aperto e fluido, eppure in qualche modo so che sono lì.

Quando mia figlia ha pubblicato il selfie con la didascalia “una bellissima serata col mio papino e la mia sorellina”, mi sono reso conto di quanto fosse stata toccante per lei quella serata. Finalmente aveva avuto il papà che aveva sempre desiderato, quello che partecipa attivamente alla sua vita e condivide momenti speciali con lei. Anche se per me è stato solo un modo naturale di essere presente, per lei è stato un evento eccezionale.

E poi c’era la questione della macchina. Sì, è vero, non volevo ammetterlo, ma avevo trovato quella scusa per non dover affrontare il giro con gli amici. Avevo capito che la vera ricchezza della vita si trova nelle piccole cose, nei momenti semplici e autentici con la famiglia. Le risate dei miei figli, i loro racconti, la complicità di una cena insieme. Forse non avrei mai ammesso apertamente di preferire tutto ciò a una serata con gli amici, ma in fondo, ero grato di aver avuto quell’opportunità di riscoprire quello che davvero conta.

LEGGI ANCHE:  Quali sono i fattori che influenzano il peso del bambino alla nascita?

Quali storie ti hanno raccontato i tuoi figli invece di quella notte?

Mio figlio Emanuele mi narrò di tornare a casa dopo una serata con gli amici, intorno alle due del mattino, e di trovare il padre nella loro stanza intento a usare il computer. Alla sua domanda sul perché fosse ancora sveglio, il padre rispose con una frase che oggi suona agghiacciante: “vai a letto, domattina vedrai“. Mentre i miei figli dormivano, lui premeditava l’assassinio, vagando per casa alla ricerca di due coltelli molto affilati, che da sempre tenevo nascosti, vista la pericolosità delle lame, uno da pane e l’altro da arrosto.

Il tutto sembra un banale fatto di cronaca nera, ma le ferite che questa tragedia ha lasciato nella mia famiglia e nella mia anima sono profonde e indelebili. La vita è imprevedibile, e spesso siamo ignari dei pericoli che si nascondono dietro l’apparenza della normalità.

Emanuele scrisse in seguito un biglietto diretto a me: “Io ti amavo e non c’era bisogno di farmi passare tutto questo. Bastava solo perdonarmi perché io ti amavo e tu mi hai portato a fare quello che ho fatto e cioè alla follia. Come dicevi tu ‘la mente è un filo di capello’ e, se tu mi avessi perdonato, tutto sarebbe tornato come prima”. Le parole di mio figlio sono un’eco delle problematiche e delle dinamiche complesse che si nascondono all’interno dei rapporti familiari, della difficoltà di comunicare e comprendere realmente il prossimo.

La tragedia si consumò quella notte, quando il padre percorse il corridoio che divideva la sala da pranzo dalla camera da letto e si scagliò contro Laura, colpendola mentre dormiva. Le vite intrecciate si spezzarono, il sangue versato divenne simbolo di sofferenza e disperazione. La violenza familiare è un male che si annida nelle pieghe più riposte delle relazioni umane, pronto a esplodere e a mietere vittime innocenti.

I miei figli più grandi furono risvegliati dalle urla e cercarono disperatamente di porre fine alla furia omicida del padre. Andrea, nel tentativo di disarmarlo, si ferì gravemente alle mani, e Marika, riuscì a fuggire e chiedere aiuto. Il dolore e la tragica battaglia che si consumarono in quella notte resteranno per sempre impressi nella memoria di chi ha vissuto quegli angoscianti istanti. Lo sguardo della morte si è posato su di noi, costringendoci a confrontarci con l’inevitabile fragilità della vita e dei legami familiari.

Laura spirò tra le braccia di Andrea, e il dolore delle sue ultime parole risuona ancora nitidamente nella mia mente: “Perdonatelo, è ancora vostro padre”. La compassione e l’amore continuano a lottare per trovare spazio anche nei momenti più terribili, testimoniando che, nonostante tutto, nell’abisso della tragedia, continua a bruciare la speranza di redenzione e pace.

Al giorno d’oggi, con il vantaggio della riflessione, pensi che ci fossero stati dei segnali che indicavano la presenza di tossicità nella relazione?

Nella storia di ogni coppia ci sono nodi irrisolti, problemi che si accumulano sotto la superficie della vita quotidiana, come sabbia che si deposita sul fondo di un fiume. La convivenza, la condivisione degli spazi e dei momenti, può portare a una sorta di accondiscendenza verso l’altro, a una accettazione acritica di atteggiamenti e comportamenti che magari inizialmente avremmo respinto.

La violenza economica, ad esempio, è spesso una forma subdola di controllo, una catena invisibile che lega la vittima al suo carnefice. E mentre la protagonista di questa storia impara a riconoscerla, a comprendere fino in fondo la sua condizione, noi lettori possiamo riflettere sulle forme di controllo e su come esse possano manifestarsi nelle nostre stesse vite.

Ciò che mi colpisce di più in questa vicenda è la presa di coscienza della protagonista, la sua ribellione interiore, l’insorgere di una nuova consapevolezza. A volte si rimane intrappolati in schemi consolidati, nelle promesse fatte a noi stessi e agli altri, ma è proprio nella rottura di queste promesse che spesso si cela la nostra vera libertà.

Nel momento in cui decide di non accettare più la situazione, di non nascondersi dietro la maschera della perfezione coniugale, la protagonista rivendica il suo diritto alla verità, al rispetto, alla dignità. Gli anni di convivenza, di complici silenzi, vengono messi in discussione, e ciò che emerge è un nuovo coraggio, una voce che non intende più stare in silenzio.

In questo racconto c’è un insegnamento prezioso, che va al di là della singola esperienza personale: la consapevolezza dei propri diritti, la ricerca incrollabile della propria indipendenza e libertà. Ecco che il coraggio di una donna diventa esempio e monito per tutte le ragazze che, leggendo queste righe, possono trovare un’ispirazione per il proprio cammino nella vita.

La violenza psicologica è continuata anche dopo la violenza fisica, come dimostra la lettera lasciata da Russo che ti incolpava dell’accaduto.

Nel biglietto c’era scritto “Bastava solo perdonarmi perché io ti amavo e tu mi hai portato a fare quello che ho fatto e cioè alla follia”. Queste parole, indelebili nella memoria di Laura, mi riportano a riflettere sulle intricanti relazioni umane, sulle dinamiche psicologiche che spesso sfuggono al nostro controllo.

Il pensiero di Laura, e del senso di colpa che lui ha voluto innescarmi, mi perseguita ancora, come una costante presenza nell’oscuro labirinto della mente umana. E mi chiedo spesso: “E se io avessi abbassato la testa? Se fossi stata zitta, mia figlia sarebbe ancora viva?” Le incertezze e le domande irrisolte si intrecciano in un groviglio intricato di rimpianti e rimorsi, alimentando il dolore che sembra non avere fine.

Ma quando mi avvilisco con questi pensieri, mia figlia Marika, con la sua saggezza oltre gli anni, mi rammenta che “non è giusto”. E in effetti, in un mondo giusto, una donna non dovrebbe mai temere le conseguenze di una sua decisione di interrompere una relazione. Dovrebbe essere libera di agire secondo il proprio sentire, senza il timore che le sue azioni possano rivoltarsi contro di lei o contro i suoi cari.

Oggi mi ritrovo a custodire un dolore che definisco “ergastolo”, una condanna senza via d’uscita, una pena inflitta senza colpa né sentenza. E da questo dolore, ho tratto una missione: narrare la nostra storia per sensibilizzare i giovani, offrire loro un monito sulla fragilità e sulla complessità della mente umana. I giovani devono essere consapevoli che il confine tra amore e follia è più labile di quanto si possa immaginare. Devono imparare a riconoscere i segnali di pericolo, a parlare delle proprie emozioni e a chiedere aiuto se necessario.

La mente umana è un labirinto misterioso, capace di condurci verso abissi insondabili se non siamo vigili. I giovani devono essere educati a esplorare le proprie emozioni, a confrontarsi con le proprie fragilità, affinché non diventino prede dell’oscurità che talvolta risiede in ognuno di noi. Perché ciò che resta, al di là del dolore e del rimpianto, sono vite distrutte e un’ombra di sofferenza che non risparmia nemmeno chi sopravvive.

Consideri che i genitori e la situazione familiare possano influenzare i comportamenti violenti dei figli?

Sarebbe facile attribuire la colpa ai genitori, ma la realtà è molto più complessa di quanto possiamo immaginare. Le relazioni familiari sono intrise di sfumature, non sempre visibili agli occhi esterni. Ogni genitore cerca di plasmare il proprio figlio nel miglior modo possibile, ma spesso si trova di fronte a ostacoli insormontabili.

Tuttavia, credo che riuscire a salvare un ragazzo da un destino tragico sia una vittoria inestimabile. È come un raggio di luce che squarcia le tenebre della disperazione, un segno tangibile che qualcosa di buono può ancora germogliare in questo mondo oscuro.

LEGGI ANCHE:  Il costo del centro estivo a Milano: fino a 2.000 euro per figlio per due mesi, quanto è elevato!

Le famiglie attraversano tempi difficili, le relazioni si frantumano e i genitori si trovano spesso spaesati di fronte alle trasformazioni dei propri figli. La paura che l’affetto manchi porta a concessioni eccessive, ma alla fine si rischia di crescere ragazzi impreparati a fronteggiare le delusioni e i “no” della vita. E così, l’idea di risolvere tutto con la violenza diventa sempre più accattivante per alcune giovani menti.

La vita si presenta come un labirinto intricato, dove ogni passo è una scelta difficile da compiere. E forse, proprio in questo labirinto, si nasconde la chiave per capire e, spero, risolvere i problemi di violenza e disgregazione familiare che affliggono la nostra società.

Qual è stata l’origine dell’idea di creare l’associazione “Laura vive in me” e quali sono gli obiettivi che intende raggiungere?

Nel costruire l’associazione, ho cercato di rendere tangibile il sogno di Laura, trasformando la sua passione per gli animali in un gesto concreto di solidarietà. Mi piace pensare che questo progetto sia una sorta di testimone del suo desiderio di aiutare gli esseri viventi in difficoltà, un desiderio che ora vivo attraverso di me.

Il lavoro con i giovani, invece, nasce da una profonda consapevolezza della fragilità dell’età adolescenziale, un periodo così pieno di speranze e allo stesso tempo vulnerabile. Lo faccio anche un po’ per me stesso, perché salvare un ragazzo è come salvare un pezzo di me e di ciò che è stato Laura. Credo che ogni vita salvata, sia essa umana o animale, sia una piccola vittoria contro l’indifferenza e la crudeltà del mondo.

Ecco, forse in questo modo riesco a dare un senso alla perdita di Laura, accogliendo e donando amore a chi ne ha bisogno, perché come diceva lei, l’amore è l’unica risorsa che si moltiplica quando la si condivide. E io, in fondo, non faccio altro che condividere l’amore che ho per lei con il mondo.

Quanto è importante introdurre l’educazione all’affettività fin dalla scuola primaria e nelle scuole superiori, secondo il governo e la tua esperienza personale?

Parlare di affettività ai bambini fin dai primi anni di vita è come piantare un seme prezioso nel terreno della loro anima, e coltivarlo con cura affinché possa germogliare e crescere forte e sano. Si tratta di insegnare loro a comprendere e rispettare gli esseri viventi che li circondano, ad aprirsi all’empatia e a coltivare l’amore verso il prossimo. Questi valori, se ben radicati, possono fungere da antidoto contro la crudeltà e l’indifferenza che tanto spesso avvelenano il cuore umano.

Mi vengono in mente le giornate trascorse con mio nipotino, durante le quali ho potuto osservare il suo attaccamento e la sua premura verso i piccoli animaletti che incontravamo nel nostro cammino. Ogni volta che prendeva in mano un insetto o accarezzava un animaletto, io mi chiedevo se quelle semplici esperienze potessero aiutarlo a maturare un senso di responsabilità e amore verso gli esseri viventi, preparandolo così a una vita di relazioni autentiche e rispettose.

Eppure, non possiamo dimenticare che, insieme alla dolcezza e all’amore, la vita può riservare anche terribili colpi di scena, capaci di sconvolgere la nostra esistenza in modo imprevedibile. Anche a mio nipotino è toccato affrontare una verità dolorosa, ed è stato interessante osservare come, nonostante la paura iniziale, abbia saputo riconoscere la bontà nel suo papà e, al contempo, la terribile metamorfosi che lo ha trasformato in un assassino.

È difficile per un adulto trovare le parole giuste per spiegare un simile dramma a un bambino, eppure è necessario farlo, con delicatezza ma senza paura. Non possiamo nascondere ai nostri piccoli la complessità del mondo, con le sue ombre e le sue luci. È questo uno dei compiti più impegnativi e delicati che ci aspetta nella formazione degli individui: aiutarli a comprendere il bene e il male, a distinguere tra l’amore autentico e la perversione delle emozioni, affinché possano crescere come esseri umani consapevoli e responsabili.

Mi viene in mente una scena, durante uno dei miei incontri con i ragazzi, quando ho chiesto loro quanti avessero visto il film “Mare fuori” e quante di loro avessero un telefono cellulare. Le mani si sono alzate all’unisono, ma quando ho domandato loro se avessero attivato i blocchi ai contenuti o il parental control, il silenzio è stato assordante. Ho realizzato, in quel momento, quanto sia importante offrire ai giovani la possibilità di ascoltare storie vere, come la mia, anziché lasciarli soli di fronte a un flusso costante di immagini dolorose che popolano i loro schermi.

In un mondo in cui la violenza e la crudeltà sembrano sempre a portata di clic, dobbiamo assicurarci che i nostri ragazzi siano preparati a interpretare queste immagini, a riconoscerne la pericolosità e a contrastarne l’influenza negativa. Solo così potremo sperare che diventino adulti empatici e capaci di costruire relazioni sane e rispettose.

Inoltre, l’educazione alla parità di genere fin dalla più tenera età può avere un impatto profondo sulla vita dei bambini. Può aiutarli a riconoscere e denunciare situazioni familiari disfunzionali, a non replicare modelli di comportamento dannosi e a intervenire nel caso ne siano testimoni. Infatti, se un bambino cresce in un ambiente in cui il rispetto reciproco tra i generi è alla base delle relazioni, sarà più propenso a rifiutare atteggiamenti violenti e discriminatori, diventando così un agente di cambiamento nella propria famiglia e nella società.

In fondo, educare un bambino è come piantare un giardino: richiede pazienza, cura e attenzione costante. Ma è anche un’opportunità straordinaria, in grado di plasmare il futuro e di generare speranza in un mondo spesso cupo e incerto. Possiamo solo sperare che, come giardinieri pazienti e amorevoli, siamo in grado di seminare in essi i semi di una vita piena di armonia, empatia e amore.

I tuoi figli hanno sentito la necessità di modificare il proprio cognome?

I tre fratelli hanno atteso pazientemente il momento opportuno per abbandonare il cognome che li aveva segnati, un peso che portavano addosso come un marchio indelebile. Marika, la più giovane, ha dovuto attendere il termine del liceo per non destare troppa curiosità tra i suoi compagni di classe. E così, una volta conseguita la maturità, è giunto il momento di liberarsi di quel cognome che per troppo tempo li aveva legati a un passato oscuro.

Eppure, nonostante abbiano cambiato nome, è come se un’ombra persistente continuasse a seguirli ovunque. Nel piccolo paese in cui vivono, basta un semplice sguardo o un commento maldicente per riportarli brutalmente alla realtà del loro legame con un assassino. Anche il figlio di uno di loro, nel formare una relazione affettiva, ha dovuto subire il peso dei pregiudizi che ancora oggi gravano su di loro. Tali circostanze, senza dubbio, risultano essere un fardello pesante da sopportare.

Eppure, nonostante tutto, i tre fratelli dimostrano una grande determinazione nel voler proseguire le loro vite senza lasciarsi intralciare dai giudizi e dalle malelingue. Hanno voglia di guardare avanti, sperando di trovare le persone giuste che sappiano guardare oltre le apparenze e riconoscerli per ciò che veramente sono. La vita, con le sue ingiustizie e le sue discriminazioni, li ha resi consapevoli della durezza del giudizio altrui, ma anche della forza interiore che li spinge a continuare a lottare per il proprio futuro.

Qual è il significato di un atteggiamento dello Stato che fa supporre che consideri alcune vittime più importanti di altre?

Erano anni quei giorni. Giorni in cui la terra sembrava riempirsi di buchi neri, in cui il cielo si faceva sempre più denso e cupo. Giorni in cui la vita cambiava per sempre, senza chiedere permesso.

LEGGI ANCHE:  Come riconoscere i segni dell'anemia mediterranea nei propri figli e individuare se sono portatori sani della malattia

Non è facile spiegare cosa sia la violenza, cosa faccia alla mente e al corpo di chi ne è vittima. Non è semplice descrivere il vuoto, il terrore, la disperazione che si insinuano dentro di te e ti stringono forte come un cappio al collo. Eppure è proprio questo il destino dei miei figli, di Marika, di Emanuele. Non riconosciuti dallo Stato come vittime, nonostante le ferite invisibili che portano dentro di sé. Ma la violenza non si misura solo sul corpo, si insinua anche nell’anima, la corrode, la spezza, la devasta.

E così mi ritrovo a chiedere non tanto aiuto economico, ma sostegno, comprensione, vicinanza. Perché io e i miei figli abbiamo bisogno di riconoscimento, di quel gesto che dica “siamo qui con voi, non siete soli”. Abbiamo bisogno di una mano tesa, di un sorriso, di una parola gentile. Non possiamo riparare ciò che è stato distrutto, ma possiamo cercare di ricostruire, lentamente, con pazienza, con amore.

Eppure il mondo sembra non volerci ascoltare. Le istituzioni mostrano indifferenza, i centri psicologici tacciono, le porte si chiudono davanti a noi. E così ci sentiamo abbandonati, soli in mezzo al caos. Non chiediamo elemosine, chiediamo dignità, chiediamo di poter guardare avanti senza il peso del passato che ci opprime.

Ma la vita continua a imporsi, a chiederci di trovare la forza per andare avanti. I miei figli non riescono a studiare, a vivere una vita normale, perché la violenza ha sconvolto tutto, ha frantumato le certezze, ha indebolito le speranze. E io mi ritrovo a lottare ogni giorno, a cercare di essere forte per loro, a cercare di trovare un lavoro per poter garantire loro un futuro.

E così mi ribello, mi rifiuto di accettare che il dolore sia l’unica risposta. Cerco aiuto, chiedo sostegno, non solo per me ma anche per loro. Non posso essere io a portare tutto il peso, a sopportare tutto il dolore. Abbiamo bisogno di essere ascoltati, compresi, curati.

La vita è un’opera in continua evoluzione, fatta di luci e ombre, di dolore e speranza. E noi cerchiamo di trovare il nostro equilibrio, di non soccombere sotto il peso delle avversità. Ma ciò che è certo è che, da soli, non ce la faremo mai. Abbiamo bisogno l’uno dell’altro, di quel legame invisibile ma potentissimo che ci tiene uniti, che ci dà la forza di andare avanti nonostante tutto. E così continuiamo a sperare, a resistere, a lottare. Perché la vita, nonostante tutto, merita di essere vissuta.

Oggi è una giornata dedicata all’eliminazione della violenza sulle donne: quali azioni sarebbero efficaci per sensibilizzare l’opinione pubblica su questo tema così importante?

Il 25 novembre è una data che ritorna puntualmente ogni anno, come un appuntamento imprescindibile delle nostre coscienze. Ma la vera lotta contro la violenza sulle donne non può limitarsi a una singola giornata, a un momento di sensibilizzazione fugace. Deve essere un impegno costante, quotidiano, che si radichi profondamente nelle nostre abitudini e nei nostri pensieri.

Le frasi fatte e gli slogan possono suscitare momenti di riflessione, ma non sono sufficienti a cambiare la realtà delle donne che subiscono violenza. Serve un cambiamento vero, tangibile, che inizi a livello culturale, dalla base, dalla formazione nelle scuole. Serve educare le nuove generazioni a rispettare l’altro, a riconoscere e contrastare ogni forma di oppressione e violenza.

Ma non basta solo un cambiamento culturale, serve anche un cambiamento legale. Norme stringenti e azioni immediate devono essere messe in atto per proteggere le donne che denunciano situazioni di pericolo. Non possiamo permettere che una denuncia cada nel vuoto, che una richiesta di aiuto venga ignorata o sottovalutata.

La vita, come la lotta contro la violenza sulle donne, è fatta di piccoli gesti quotidiani che insieme possono generare un grande cambiamento. Ogni giorno, ogni azione conta. E così come combattere la violenza sulle donne richiede un impegno costante, anche la costruzione di una società più giusta e rispettosa richiede un impegno continuo da parte di ciascuno di noi.

Qual è la tua opinione su una particolare modalità di narrazione della violenza di genere o domestica sui social o in tv che non condividi?

Il fatto è che la realtà, in fondo, è comunque una questione di interpretazione. Ognuno di noi la vede da un punto di vista diverso, filtrata dalle proprie esperienze, paure, gioie. La storia di Marika, ad esempio, è stata raccontata in tanti modi diversi: una tragedia familiare, un miracolo di sopravvivenza, una storia di coraggio, ma anche un caso da sfruttare per aumentare le vendite. La verità è che tutte queste versioni, pur contenendo un frammento di realtà, sono solo dei punti di vista parziali, come i tanti lati di un poliedro che riflette la luce in modo diverso da ogni angolazione.

E’ da qui che nasce il compito del giornalista: narrare la verità nella maniera più oggettiva possibile, evitando di distorcere i fatti per sensazionalismo o per sfruttare una tragedia a fini personali. Eppure, come dimostra il caso di Marika, la realtà può anche ingannarci, può presentarsi in forma ingannevole, farci pensare di capire cosa sta succedendo quando in realtà non sappiamo nulla.

La verità è un concetto sfuggente, difficile da afferrare e quasi impossibile da raccontare senza distorsioni. Ma è essenziale provare a farlo, perché solo così possiamo sperare di capire la complessità del mondo in cui viviamo. E forse, solo così, possiamo anche sperare di apportare dei cambiamenti, piccoli o grandi che siano.

Qual è il modo per iniziare nuovamente a vivere?

Vivere non è solo respirare e muoversi, ma è anche riuscire a trovare un senso, una gioia, una vitalità che vada oltre la mera sopravvivenza. E anche se può sembrare difficile, è importante continuare a cercare quei piccoli momenti di gioia e di bellezza che ancora possono riempire la vita.

Il Natale, in particolare, è una festa che mette in risalto la famiglia e il calore umano, ed è comprensibile che la sua assenza ti faccia sentire senza via d’uscita. Ma proprio lì, nella compassione e nell’affetto degli altri, può risiedere una via per riaccendere una luce nel buio.

Mi viene in mente il concetto calviniano di “leggerezza” versus “pesantezza”, e forse in questo momento di dolore non si può pretendere di volare leggeri come una piuma, ma forse si può cercare di alleggerire un po’ il peso della sofferenza, ritrovando la pienezza della vita e della relazione con gli altri.

Forse, nel perseguire ciò che ritieni giusto e bello per i tuoi cari, potrai scoprire che anche tu hai un posto in questo cammino, che la tua presenza è importante e che la tua vita può, ancora una volta, trovare un senso e una rinascita.