Elena condivide la sua esperienza sull’adozione di suo figlio Patrice e sottolinea l’importanza che i bambini adottati si sentano liberi di esprimere la propria rabbia.

Elena condivide la sua esperienza sull’adozione di suo figlio Patrice e sottolinea l’importanza che i bambini

Elena e suo marito Alberto si ritrovarono ad affrontare un viaggio inaspettato, un viaggio che li condusse fino al cuore dell’Africa, per portare a casa il loro figlio adottivo Patrice. Questa avventura, iniziata nel 2024, li ha portati a rivalutare profondamente il significato dell’adozione e a ribaltare la narrazione comune su questo tema.

La loro storia è un esempio di quanto l’adozione non sia soltanto un atto di generosità nei confronti del bambino, ma un’intensa e complessa esperienza di crescita reciproca. Elena è convinta che i bambini adottati non debbano sentirsi fortunati, ma devono essere liberi di esprimere la propria rabbia per l’abbandono subito. Questa prospettiva mette in discussione molte delle convinzioni comuni sull’adozione, invitando a una riflessione più profonda sulle emozioni e sulle relazioni coinvolte.

Il tempo trascorso in attesa di conoscere Patrice è stato un periodo di crescita interiore per Elena e Alberto. Hanno dovuto imparare a gestire l’incertezza e la paura, affrontando una realtà sconosciuta e imprevedibile. L’associazione “Il filo di Arianna” è stata per loro un faro in questo viaggio, offrendo supporto e informazioni cruciali per affrontare le sfide che si presentavano lungo il cammino.

Il Burkina Faso ha giocato un ruolo fondamentale in questa storia, avvolgendo la famiglia con la sua cultura e le sue leggi sull’adozione. È stato un luogo di scoperta e di approfondimento, in cui Elena e Alberto hanno imparato a comprendere le radici del loro figlio e a rispettare la sua storia. Il legame con questa terra è diventato parte integrante della loro esperienza familiare, arricchendola con nuove prospettive e valori.

Patrice, protagonista indiscusso di questa narrazione, ha affrontato la sua crescita consapevole della sua condizione di figlio adottivo. Le difficoltà incontrate a scuola non sono mancate, ma la famiglia ha affrontato ogni situazione con sincerità e trasparenza, rafforzando il legame tra di loro. La consapevolezza dell’adozione è diventata uno strumento di crescita per Patrice, permettendogli di affrontare le sfide con coraggio e determinazione.

Elena, Alberto e Patrice incarnano una famiglia in cui l’amore si misura attraverso la capacità di comprendere, accettare e superare gli errori. La loro storia è un modello di resilienza e di apertura verso l’altro, un invito a riconsiderare le prospettive sull’adozione e a promuovere una maggiore consapevolezza sociale.

Qual è stata la motivazione che ha spinto te e tuo marito, Elena, a prendere la decisione di adottare un bambino?

E spesso ciò che sembra bello in apparenza porta con sé una tristezza nascosta.

Mi sono sposata nel nuovo millennio, l’anno 2024, quando avevo raggiunto la soglia dei 30 anni e Alberto, mio marito, toccava i 34 anni. Iniziò così il nostro percorso verso la genitorialità, un cammino che si rivelò pian piano diverso da quello che avevamo immaginato. Dopo vari tentativi naturali senza successo, la consapevolezza di un ostacolo invalicabile ci spinse a rivolgerci ai medici.

E così inizia la nostra storia, un racconto che non ha l’inizio di una gravidanza ma il capitolo di un’adozione: una scelta che non fu immediata ma che si impose gradually, attraverso un percorso fatto di tentativi e di riconsiderazioni.

Io e Alberto ci rendemmo conto che non cercavamo più un figlio in modo fisico, non sentivamo il bisogno di vivere l’esperienza della gravidanza per sentirlo nostro. Questi tentativi e le difficoltà che abbiamo affrontato ci hanno portato ad una consapevolezza diversa: il desiderio di essere genitori non è dettato solo dal legame biologico, ma dall’amore e dalla volontà di accogliere un bambino, qualunque origine abbia.

Decidere di adottare non è solo una scelta, è un cambio di prospettiva sulla genitorialità stessa. È l’inizio di un percorso che ti costringe a fare i conti con le tue aspettative e a superare il lutto biologico, una fase importante che i servizi sociali indagano attentamente, per essere certi che tu abbia esplorato ogni altra opzione prima di optare per l’adozione. È una domanda che si riaffaccia più volte nella mente di chi decide di adottare: sei veramente pronto ad accogliere un figlio diverso da te?

Il percorso adottivo è un viaggio che si compie in coppia, una realtà che la legge italiana, almeno fino ad oggi, richiede. È un cammino che deve essere affrontato insieme, fatto di collaborazione e complicità. Questo crea una connessione unica, una condivisione di emozioni e di difficoltà che nel percorso biologico non avviene nello stesso modo. La bellezza dell’adozione è proprio questa: entrambi i membri della coppia sono coinvolti dall’inizio alla fine, senza distinzioni di ruolo o di esperienza fisica. È un’esperienza che mette alla prova la coppia ma che può anche rafforzarla, creando una solidarietà e un intreccio di sentimenti unico.

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Questa è la nostra storia, un percorso non lineare ma ricco di sfumature e di riflessioni sulla vita e sull’amore genitoriale. Un viaggio che ci ha mostrato che l’amore non conosce confini, né biologici né di altra natura, e che la volontà di accogliere e amare un figlio può superare ogni ostacolo, persino quello della differenza biologica.

Quali sono i principali fattori da tenere presenti durante una discussione sull’argomento delle adozioni, secondo la tua opinione?

 E così, mi resi conto di quanto spesso ci siano cose più grandi di noi

Ci siamo affidati a un’ente che potesse far chiarezza sulle condizioni del bambino, ma in realtà, la chiarezza in queste situazioni è sempre difficile da ottenere. La vita è fatta di zone d’ombra, di incertezze, e spesso dobbiamo imparare a convivere con esse. Anche nell’adozione internazionale, dove le vicende dei bambini si intrecciano con le complessità dei loro Paesi di origine, è impossibile avere una visione nitida e completa.

Patrice arrivò dal Burkina Faso, un Paese segnato dalla povertà e da dinamiche familiari complesse. Era fondamentale per noi sapere che la sua famiglia biologica non l’avesse abbandonato sotto minacce o ricatti, perché volevamo poter garantire al nostro figlio che la sua storia era fatta di tragiche circostanze, ma anche di verità sincere.

Il concetto di adottabilità è carico di sofferenza e di mancanza. I bambini che arrivano da altri Paesi, che lasciano le proprie famiglie e la propria terra, portano con sé ferite profonde. E comprendere questo è fondamentale per poter essere genitori consapevoli e empatici. La bellezza di un figlio adottato non sta nella situazione che lo ha portato da noi, ma nella volontà di amarlo e sostenerlo nonostante tutto.

Quando camminavamo per strada con Patrice, molte persone ci facevano i complimenti, ma la bellezza che vedevano era solo una piccola parte della verità. Alle spalle di quel piccolo gruppo si celava una storia complessa, fatta di perdite e di rinunce. E spesso ciò che sembra bello in apparenza porta con sé una tristezza nascosta.

Sono consapevole che la realtà è complessa e sfaccettata, che non esiste il bene e il male in stato puro. Ma è importante che tutti comprendano che l’adozione internazionale è un atto necessario, ma pieno di amarezza. E solo avendo questa consapevolezza possiamo accogliere e ascoltare i nostri figli adottivi, senza giudizio e senza preconcetti.

Qual è stata la vostra impressione del primo incontro che avete avuto?

  La famiglia è come un libro aperto, con pagine che si sfogliano ogni giorno

Nel nord della capitale, in un istituto dove i bambini non erano più piccoli ma neanche troppo grandi, si trovava lui. Seduto a tavola con altri ragazzini e le nutrici, stava mangiando un piatto di riso e fagioli. La scena mi colpì particolarmente quando lo vidi infilarsi completamente la mano in bocca per prendere il cibo.

Al nostro arrivo, si alzò in piedi annunciando: “Sono io, Patrice”. Aveva capito che era giunto il momento di andare via, così come era già successo a un altro bambino una settimana prima. La vita in queste istituzioni porta a continuamente affrontare la partenza e l’arrivo di nuove persone, una lezione precoce sull’effimero e mutevole natura dell’esistenza.

Durante la nostra giornata insieme, abbiamo giocato e poi ci siamo seduti a tavola con lui per la prima volta. Ci avevano avvertito di fare attenzione, perché quei bambini non avevano ben chiara l’idea di quanto cibo e acqua dovessero consumare. È vero, non avrei saputo dire quanta quantità di pane abbia ingerito quel giorno. Di certo, la sua fame era più grande di quanto potessi immaginare.

La festa per la sua partenza è stata allegra e vivace, con i bambini che ballavano e cantavano. Lui, però, dopo appena tre minuti si addormentò tra le mie braccia, esausto. La situazione che stava vivendo era più grande di lui, e nonostante fosse stato preparato, era difficile che potesse capire appieno ciò che gli stava accadendo.

E così, mi resi conto di quanto spesso ci siano cose più grandi di noi stessi che influenzano la nostra vita, portandoci a vivere esperienze che sfuggono alla nostra comprensione. Quel giorno ho imparato che, non importa quanto si cerchi di prepararsi, l’inaspettato può sempre sorprenderci.

Quali sono state le difficoltà iniziali affrontate durante il percorso?

Patrice, da quel momento in poi, ha iniziato a mostrare la sua incredibile capacità di adattamento. Nonostante la lingua fosse una barriera iniziale, in poco tempo imparò sia il francese che l’italiano, dimostrando grande intelligenza e determinazione.

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Mi colpì molto la sua attitudine fisica, sempre in movimento, sempre pronto a esplorare e a scoprire. Era come se volesse recuperare il tempo perduto, assaporando ogni istante con una fame insaziabile. E pensavo a quanto spesso anche noi adulti dovremmo imparare da questi bambini, a mettere da parte le nostre paure e a vivere ogni momento con la stessa intensità.

La sua determinazione a non sporcarsi durante il viaggio mi fece riflettere sulle piccole grandi lezioni che possiamo imparare dai bambini. La pazienza, la capacità di attesa, il rispetto per gli altri, sono tutte qualità che spesso perdiamo col passare degli anni. Eppure, sono proprio queste qualità che ci rendono esseri umani migliori, capaci di amare e di essere amati.

Patrice, con il suo passato difficile alle spalle, mi ha insegnato che le regole imposte dall’esterno possono essere necessarie per la sopravvivenza, ma sono le regole condivise e costruite insieme che ci permettono di sentirci amati e accettati per ciò che siamo. E in un mondo in cui troppo spesso siamo costretti a conformarci agli standard degli altri, questa lezione è più preziosa che mai.

Quali sono state le sfide più complesse durante il processo di crescita?

Nella costruzione del rapporto con mio figlio, ho scoperto che l’innamoramento non è sufficiente, bisogna lavorare costantemente e accettare il tempo che ci vuole per creare legami veri e profondi. La percezione dell’adozione è venuta solo con il passare del tempo, quando abbiamo compreso che alcune regole e insegnamenti non erano adatti al suo vissuto e alla sua personalità.

Educare un bambino adottato comporta una sfida particolare, in quanto spesso l’educazione deve andare in controtendenza rispetto alle esperienze passate del bambino. Patrice ha dovuto imparare a sentirsi libero di esprimere la sua rabbia, i suoi desideri e le sue emozioni, anche se questo ha comportato un’educazione non convenzionale.

Nel tentativo di essere genitori migliori, abbiamo commesso diversi errori lungo il percorso, ma ho imparato che proprio queste imperfezioni sono ciò che rende il nostro legame più forte. Spesso si pensa di dover essere perfetti per essere dei buoni genitori, ma sono proprio i fallimenti e le piccole imperfezioni a rendere autentico il legame con i nostri figli.

La vita con Patrice è stata un viaggio di scoperta e apprendimento, un’avventura che continua ad evolversi giorno dopo giorno. Ognuno di noi porta con sé la propria storia, le proprie ferite e le proprie gioie, e l’importante è accettare e amare quel sottile filo invisibile che ci lega l’uno all’altro, rendendoci più ricchi e più umani.

Quale approccio avete scelto per raccontare a vostro figlio la storia dell’adozione?

Abbiamo deciso di raccontare subito tutto a nostro figlio, è stato naturale farlo, anche perché la diversità dei nostri colori di pelle e delle nostre origini era evidente fin dall’inizio. La legge impone di raccontare la verità ai bambini, ma spetta ai genitori scegliere il momento e il modo giusto.

Secondo me, parlare di queste cose è estremamente importante, non tanto per il nostro bambino quanto per noi stessi genitori. Ricordo bene quando eravamo tornati dal Burkina da appena una settimana e la psicologa che ci aveva seguiti tramite l’ente ci contattò. Mi chiese immediatamente se avessimo cominciato a raccontare la storia di Patrice, e mi spiegò come farlo.

Ci disse che il racconto non doveva partire da noi che avevamo avuto difficoltà a concepire un figlio, ma doveva avere origine da lui. Grazie a lei ho iniziato a cambiare prospettiva, il racconto non doveva partire da noi, ma da lui. Ci ha anche aiutati a usare un linguaggio semplice. Così ha avuto inizio la narrazione, una volta, due volte, tre volte, e l’abbiamo ripetuta tante volte finché Patrice non l’ha imparata a memoria.

Tutti noi genitori adottivi ci chiediamo quanto dobbiamo dire ai nostri figli, perché temiamo di causare loro sofferenza. L’importante è iniziare subito, così ci abitueremo tutti a raccontare la storia, arricchendola piano piano con i dettagli che il piccolo può comprendere. Nascondere qualcosa a tuo figlio è molto più doloroso, perché tutto ciò che i genitori non riescono a dire si trasforma in qualcosa di enorme per il bambino. “Se è così grande che nemmeno i miei genitori lo dicono, allora quanto grande è?” Più raccontiamo, più l’adozione diventa qualcosa di normale per noi, per lui e per tutta la società.

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Qual è stata l’approccio della scuola nei confronti dell’adozione?

Nel mondo delle scuole, esistono regole non scritte, linee guida che dovrebbero essere seguite dagli insegnanti ma che spesso vengono interpretate in maniera non del tutto rigorosa. Queste direttive non sono obbligatorie, e di conseguenza spesso vengono trascurate, lasciando spazio a incomprensioni e difficoltà da parte degli alunni.

Personalmente, abbiamo scelto un asilo per nostro figlio pensando che fosse un luogo sicuro e protetto, ma anche lì abbiamo incontrato delle difficoltà. Quando una maestra ha chiesto ai bambini di portare la loro prima foto a scuola, abbiamo subito notato la differenza che c’era tra nostro figlio e gli altri. Mentre la maggior parte dei bambini ha portato l’ecografia, la prima foto di nostro figlio è stata scattata quando aveva già due anni e mezzo. Questa situazione ha portato nostro figlio a porsi delle domande, a rendersi conto della sua diversità. Siamo dovuti intervenire parlando con la maestra, che ha finalmente compreso il modo in cui la questione era stata gestita.

La vita di un bambino adottato è fatta di piccoli ostacoli e sorprese, come quando nostro figlio si è trovato a dover affrontare la domanda sconcertante: “Mamma, ma tu sei morta?” È incredibile come certe questioni possano essere affrontate in maniera così ingenua e diretta dai più piccoli, senza renderci conto di quanto possano influenzarli. È stato chiaro che la scuola non considera l’adozione come un elemento normale, evitando di trattare la questione in modo appropriato fino a quando non siamo stati costretti ad affrontarla di petto.

È necessario comprendere che l’adozione non riguarda solo il bambino, ma coinvolge anche insegnanti, genitori e compagni di classe. È un tema che richiede dialogo e comprensione da parte di tutti, altrimenti si rischia di lasciare il bambino adottato in una situazione di isolamento e confusione. La scuola, come spesso accade, tende a evitare di affrontare le questioni scomode, ma finché non ci si scontra direttamente con esse, non si può pretendere di prendere coscienza della loro importanza.

Qual è il significato della parola “famiglia” per te?

La famiglia è come un libro aperto, con pagine che si sfogliano ogni giorno per scoprire nuovi capitoli. È come un albero, con radici profonde che si intrecciano e rami che si allungano verso il cielo. È un labirinto di emozioni, un intreccio di storie e di destini che si intrecciano tra loro, formando un mosaico unico e irripetibile.

Nella famiglia, si impara a crescere, a condividere, a perdonare. Si impara ad accettare i difetti degli altri e a superare le proprie paure e insicurezze. Si impara a essere grati per i momenti felici e a resistere alle tempeste che la vita ci riserva.

L’adozione è come un atto di amore e di coraggio, è aprire le porte del proprio cuore a qualcuno che non fa parte del proprio sangue, ma che diventa parte del proprio destino. È un viaggio verso l’ignoto, un salto nel vuoto che porta con sé la promessa di una nuova vita, di nuove speranze e di nuove sfide.

Perché alla fine, la famiglia non è solo il legame del sangue, ma è il legame del cuore. È la capacità di amare incondizionatamente, di aprirsi agli altri e di accogliere le loro diversità. È un caleidoscopio di emozioni, un’opera d’arte in continua evoluzione, che si modella e si trasforma con il passare del tempo.

La vita in famiglia è un viaggio senza fine, un’opera aperta in cui ognuno contribuisce con il proprio colore, con la propria voce, con la propria storia. Ed è proprio in questo intreccio di voci, colori e storie che risiede la bellezza e l’unicità di ogni famiglia.