Un recente studio conferma l’esistenza di un meccanismo nel nostro cervello che ci aiuta a difenderci dai bulli

Un recente studio conferma l’esistenza di un meccanismo nel nostro cervello che ci aiuta a difenderci

Nel cervello dei topi, come del resto in quello degli esseri umani, si cela un intricato meccanismo, capace di governare le reazioni a una sconfitta violenta e di mantenere il soggetto lontano dal suo aggressore per settimane. Un gruppo di studiosi dell’Università di New York ha condotto ricerche che dimostrano come questo meccanismo possa essere inconsciamente attivato nei bambini, proteggendoli dai bulli.

La vita all’interno di un gruppo comporta la necessità non solo di avvicinarsi alle figure affini, ma anche di individuare e allontanarsi dalle potenziali minacce. I topi, soggetti analizzati nello studio, mostrano questa tendenza dopo scontri anche brevi, evitando i loro avversari per periodi prolungati. Questo comportamento è particolarmente evidente nei topi maschi e nelle femmine che sono da poco diventate madri.

Una sconfitta causa nel cervello dei topi la produzione di ossitocina, comunemente nota come l’ormone dell’amore, ma in questo contesto agisce come un segnale di pericolo. Questo meccanismo di difesa si attiva al semplice odore del nemico, inducendo il topo a evitare l’incontro e a proteggersi rapidamente in caso di avvicinamento.

Tuttavia, nel corso del tempo, il cervello ripristina gradualmente la normalità, consentendo al topo di riavvicinarsi al suo avversario ormai ritenuto innocuo. Poiché le strutture cerebrali dei topi sono simili a quelle umane, è plausibile che reazioni simili possano verificarsi anche negli esseri umani.

Questo meccanismo potrebbe offrire agli individui una sorta di protezione innata contro situazioni di bullismo, consentendo loro di riconoscere e allontanarsi dalle minacce in modo istintivo. I bulli stessi, privati del contatto sociale, potrebbero essere spinti a modificare il proprio comportamento, una volta constatato il loro isolamento.

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Le implicazioni di questa ricerca potrebbero essere significative anche per lo sviluppo di nuovi trattamenti per disturbi come autismo, ansia e ADHD, aprendo la strada a nuove prospettive nel campo della salute mentale.